Che rimanga almeno un segno

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“Vi dirò, infine, cosa è (questa mostra n.d.r.): è il tentativo, da parte nostra, di ricomporre l’unità di persone che altrimenti sarebbero morte, certo, ma anche scomparse, come mai esistite. Invece quello che voi qui vedete è proprio il loro voler esistere, il loro voler significare. Che rimanga almeno un segno. Ebbene, il segno è rimasto, miracolosamente, per la profonda umanità di altre persone che tutto hanno conservato, riordinato ed accolto come incancellabile testimonianza di umana sofferenza ed emarginazione.” Giambattista Voltolini, co-curatore con Nicoletta Sturloni

I segni che rimangono sono quelli prodotti dai pazienti del dell’ex Ospedale Psichiatrico S. Lazzaro di Reggio Emilia: trovando un canale di comunicazione necessaria con se stessi e con l’altro da sé attraverso il disegno. Si ha notizia certa di una Scuola di Disegno all’interno del S. Lazzaro dal 1875, con intenti scolastici (attraverso gli insegnamenti e le correzioni di un maestro di disegno), in seguito lasciando che i pazienti si potessero esprimere liberamente, ognuno secondo il proprio modo.

Nella Settimana della Salute Mentale si celebra il segno su carta come fondamentale strumento espressivo di conoscenza del sé e di autoterapia: al Centro Alberione a Modena, con la mostra di Art Brut “I colori del silenzio”, dal 21 al 28 ottobre.

Immagini che (forse) non sono arte ma sono momenti di espressione libera e priva di vincoli degli internati, come modo per proiettare all’esterno il proprio mondo interiore con un effetto sicuramente catartico: in tal modo il paziente realizza una vera e propria Auto Terapia.

I risultati non sono stati influenzati da un insegnamento di scuola o di accademia e sono a tutti gli effetti documenti, momenti intensi di un percorso fissato su carta.
È importante non associare l’opera alla particolare sindrome dell’autore per evitare facili letture psichiatriche improvvisate, meglio lasciarsi interpellare sul piano delle emozioni che queste immagini suscitano e trasmettono in modo stupefacente.

Attraverso il disegno i malati riuscivano a uscire dalla dimensione emotivamente e spazialmente costrittiva dell’istituto, che così bene racconta Franco Basaglia:

Una favola orientale racconta di un uomo cui strisciò in bocca, mentre dormiva, un serpente. Il serpente gli scivolò nello stomaco e vi si stabilì e di là impose all’uomo la sua volontà, così da privarlo della libertà. L’uomo era alla mercé del serpente: non apparteneva più a se stesso. Finché un mattino l’uomo sentì che il serpente se n’era andato e lui era di nuovo libero. Ma allora si accorse di non saper cosa fare della sua libertà: nel lungo periodo del dominio assoluto del serpente egli si era talmente abituato a sottomettere la sua propria volontà alla volontà di questo, i suoi propri desideri ai desideri di questo, i suoi propri impulsi agli impulsi di questo che aveva perso la capacità di desiderare, di tendere a qualcosa, di agire autonomamente. In luogo della libertà aveva trovato il vuoto, perché la sua nuova essenza acquistata nella cattività se ne era andata insieme col serpente, e a lui non restava che riconquistare a poco a poco il precedente contenuto umano della sua vita.
L’analogia di questa favola con la condizione istituzionale del malato mentale è addirittura sorprendente, dato che sembra la parabola fantastica dell’incorporazione da parte del malato di un nemico che lo distrugge, con gli stessi atti di prevaricazione e di forza con cui l’uomo della favola è stato dominato e distrutto dal serpente. Il malato, che già soffre di una perdita di libertà quale può essere interpretata la malattia, si trova costretto ad aderire ad un nuovo corpo che è quello dell’istituzione, negando ogni desiderio, ogni azione, ogni aspirazione autonoma che lo farebbero sentire ancora vivo e ancora se stesso. Egli diventa un corpo vissuto nell’istituzione, per l’istituzione, tanto da essere considerato come parte integrante delle sue stesse strutture fisiche.” (da Corpo e istituzione, 1967, in L’utopia della realtà, Einaudi)

 

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